Lettera Apoatolica
di Sua Santità Benedetto XVI
Motu Proprio Data

Summorum Pontificum

 

I Sommi Pontefici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno, “a lode e gloria del Suo nome” ed “ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa”.

Da tempo immemorabile, come anche per l'avvenire, è necessario mantenere il principio secondo il quale “ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l'integrità della fede, perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede” [1] .

Tra i Pontefici che ebbero tale doverosa cura eccelle il nome di san Gregorio Magno, il quale si adoperò perché ai nuovi popoli dell'Europa si trasmettesse sia la fede cattolica che i tesori del culto e della cultura accumulati dai Romani nei secoli precedenti. Egli comandò che fosse definita e conservata la forma della sacra Liturgia, riguardante sia il Sacrificio della Messa sia l'Ufficio Divino, nel modo in cui si celebrava nell'Urbe. Promosse con massima cura la diffusione dei monaci e delle monache, che operando sotto la regola di san Benedetto, dovunque unitamente all'annuncio del Vangelo illustrarono con la loro vita la salutare massima della Regola: “Nulla venga preposto all'opera di Dio” (cap. 43). In tal modo la sacra Liturgia celebrata secondo l'uso romano arricchì non solo la fede e la pietà, ma anche la cultura di molte popolazioni. Consta infatti che la liturgia latina della Chiesa nelle varie sue forme, in ogni secolo dell'età cristiana, ha spronato nella vita spirituale numerosi Santi e ha rafforzato tanti popoli nella virtù di religione e ha fecondato la loro pietà.

Molti altri Romani Pontefici, nel corso dei secoli, mostrarono particolare sollecitudine a che la sacra Liturgia espletasse in modo più efficace questo compito: tra essi spicca s. Pio V, il quale sorretto da grande zelo pastorale, a seguito dell'esortazione del Concilio di Trento, rinnovò tutto il culto della Chiesa, curò l'edizione dei libri liturgici, emendati e “rinnovati secondo la norma dei Padri” e li diede in uso alla Chiesa latina.

Tra i libri liturgici del Rito romano risalta il Messale Romano, che si sviluppò nella città di Roma, e col passare dei secoli a poco a poco prese forme che hanno grande somiglianza con quella vigente nei tempi più recenti.

“Fu questo il medesimo obbiettivo che seguirono i Romani Pontefici nel corso dei secoli seguenti assicurando l'aggiornamento o definendo i riti e i libri liturgici, e poi, all'inizio di questo secolo, intraprendendo una riforma generale” [2] . Così agirono i nostri Predecessori Clemente VIII, Urbano VIII, san Pio X [3] , Benedetto XV, Pio XII e il B. Giovanni XXIII.

Nei tempi più recenti, il Concilio Vaticano II espresse il desiderio che la dovuta rispettosa riverenza nei confronti del culto divino venisse ancora rinnovata e fosse adattata alle necessità della nostra età. Mosso da questo desiderio, il nostro Predecessore, il Sommo Pontefice Paolo VI, nel 1970 per la Chiesa latina approvò i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Essi, tradotti nelle varie lingue del mondo, di buon grado furono accolti da Vescovi, sacerdoti e fedeli. Giovanni Paolo II rivide la terza edizione tipica del Messale Romano. Così i Romani Pontefici hanno operato “perché questa sorta di edificio liturgico [...] apparisse nuovamente splendido per dignità e armonia” [4] .

Ma in talune regioni non pochi fedeli aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il loro spirito, che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, mosso dalla cura pastorale nei confronti di questi fedeli, nell'anno 1984 con lo speciale indulto “Quattuor abhinc annos”, emesso dalla Congregazione per il Culto Divino, concesse la facoltà di usare il Messale Romano edito dal B. Giovanni XXIII nell'anno 1962; nell'anno 1988 poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica “ Ecclesia Dei ”, data in forma di Motu proprio , esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero.

A seguito delle insistenti preghiere di questi fedeli, a lungo soppesate già dal Nostro Predecessore Giovanni Paolo II, e dopo aver ascoltato Noi stessi i Padri Cardinali nel Concistoro tenuto il 22 marzo 2006, avendo riflettuto approfonditamente su ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando sull'aiuto di Dio, con la presente Lettera Apostolica stabiliamo quanto segue:

Art. 1. Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “ lex orandi ” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “ lex orandi ” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “ lex orandi ” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “ lex credendi ” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell'unico rito romano.

Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l'edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa. Le condizioni per l'uso di questo Messale stabilite dai documenti anteriori “ Quattuor abhinc annos ” e “ Ecclesia Dei ”, vengono sostituite come segue:

Art. 2. Nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l'uno o l'altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario.

Art. 3. Le comunità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, di diritto sia pontificio sia diocesano, che nella celebrazione conventuale o “comunitaria” nei propri oratori desiderano celebrare la Santa Messa secondo l'edizione del Messale Romano promulgato nel 1962, possono farlo. Se una singola comunità o un intero Istituto o Società vuole compiere tali celebrazioni spesso o abitualmente o permanentemente, la cosa deve essere decisa dai Superiori maggiori a norma del diritto e secondo le leggi e gli statuti particolari.

Art. 4. Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra all'art. 2, possono essere ammessi – osservate le norme del diritto – anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà.

Art. 5. § 1. Nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del Messale Romano edito nel 1962. Provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del Vescovo a norma del can. 392, evitando la discordia e favorendo l'unità di tutta la Chiesa.

§ 2. La celebrazione secondo il Messale del B. Giovanni XXIII può aver luogo nei giorni feriali; nelle domeniche e nelle festività si può anche avere una celebrazione di tal genere.

§ 3. Per i fedeli e i sacerdoti che lo chiedono, il parroco permetta le celebrazioni in questa forma straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni, esequie o celebrazioni occasionali, ad esempio pellegrinaggi.

§ 4. I sacerdoti che usano il Messale del B. Giovanni XXIII devono essere idonei e non giuridicamente impediti.

§ 5. Nelle chiese che non sono parrocchiali né conventuali, è compito del Rettore della chiesa concedere la licenza di cui sopra.

Art. 6. Nelle Messe celebrate con il popolo secondo il Messale del B. Giovanni XXIII, le letture possono essere proclamate anche nella lingua vernacola, usando le edizioni riconosciute dalla Sede Apostolica.

Art. 7. Se un gruppo di fedeli laici fra quelli di cui all'art. 5 § 1 non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, ne informi il Vescovo diocesano. Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se egli non può provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia “ Ecclesia Dei ”.

Art. 8. Il Vescovo, che desidera rispondere a tali richieste di fedeli laici, ma per varie cause è impedito di farlo, può riferire la questione alla Commissione “ Ecclesia Dei ”, perché gli offra consiglio e aiuto.

Art. 9 § 1. Il parroco, dopo aver considerato tutto attentamente, può anche concedere la licenza di usare il rituale più antico nell'amministrazione dei sacramenti del Battesimo, del Matrimonio, della Penitenza e dell'Unzione degli infermi, se questo consiglia il bene delle anime.

§ 2. Agli Ordinari viene concessa la facoltà di celebrare il sacramento della Confermazione usando il precedente antico Pontificale Romano, qualora questo consigli il bene delle anime.

§ 3. Ai chierici costituiti “ in sacris ” è lecito usare il Breviario Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962.

Art. 10. L'Ordinario del luogo, se lo riterrà opportuno, potrà erigere una parrocchia personale a norma del can. 518 per le celebrazioni secondo la forma più antica del rito romano, o nominare un cappellano, osservate le norme del diritto.

Art. 11. La Pontificia Commissione “ Ecclesia Dei ”, eretta da Giovanni Paolo II nel 1988 [5] , continua ad esercitare il suo compito.

Tale Commissione abbia la forma, i compiti e le norme, che il Romano Pontefice le vorrà attribuire.

Art. 12. La stessa Commissione, oltre alle facoltà di cui già gode, eserciterà l'autorità della Santa Sede vigilando sulla osservanza e l'applicazione di queste disposizioni.

Tutto ciò che da Noi è stato stabilito con questa Lettera Apostolica data a modo di Motu proprio , ordiniamo che sia considerato come “stabilito e decretato” e da osservare dal giorno 14 settembre di quest'anno, festa dell'Esaltazione della Santa Croce, nonostante tutto ciò che possa esservi in contrario.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 7 luglio 2007, anno terzo del nostro Pontificato.

BENEDICTUS PP. XVI

[1] Ordinamento generale del Messale Romano , 3 a ed., 2002, n. 397.

[2] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Vicesimus quintus annus , 4 dicembre 1988, 3: AAS 81 (1989), 899.

[3] Ibid.

[4] S. Pio X, Lett. ap. Motu propio data, Abhinc duos annos , 23 ottobre 1913: AAS 5 (1913), 449-450; cfr Giovanni Paolo II, lett. ap. Vicesimus quintus annus , n. 3: AAS 81 (1989), 899.

[5] Cfr Ioannes Paulus II, Lett. ap. Motu proprio data Ecclesia Dei , 2 luglio 1988, 6: AAS 80 (1988), 1498.

 

La Mia Vita: Ricordi, 1927-1997
Di Joseph Ratzinger

 

Grande evento all'inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un'altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, però, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C'è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo, dopo il concilio di Trento, fu di altra natura: l'irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di "riforme" liturgiche. Non c'erano semplicemente una Chiesa cattolica e una Chiesa protestante poste l'una accanto all'altra; la divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire. In questa situazione di confusione, resa possibile dalla mancanza di una normativa liturgica unitaria e dal pluralismo liturgico ereditato dal medioevo, il Papa decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città di Roma, in quanto sicuramente cattolico, doveva essere introdotto dovunque non ci si potesse richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima. Dove questo si verificava, si poteva mantenere la liturgia precedente, dato che il suo carattere cattolico poteva essere considerato sicuro. Non si può quindi affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento regolarmente approvati. Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche.
Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti.
Non c'è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia "fatta", che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di " donato ", ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna " comunità " voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l'incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita.

Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l'unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita "etsi Deus non daretur": come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta.

Ma se nella liturgia non appare più la comunione della fede, l'unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov'è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale?
Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena. E, dato che la comunità in se stessa non ha sussistenza, ma, in quanto unità, ha origine per la fede dal Signore stesso, diventa inevitabile in queste condizioni che si arrivi alla dissoluzione in partiti di ogni genere, alla contrapposizione partitica in una Chiesa che lacera se stessa. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del concilio VaticanoII.


Tratto da: "La mia vita: ricordi, 1927-1977", Joseph Ratzinger, Edizioni San Paolo, 1997 - © Copyright 1997-2007 - Libreria Editrice Vaticana

 

L'antica Messa in latino non e' una controriforma
di Massimo Introvigne

Benedetto XVI ha presentato il Motu proprio con cui liberalizza la celebrazione della Messa con il rito detto di san Pio V, in lingua latina e secondo la versione del 1962 dell'antico Messale.
Il documento era atteso da mesi e non è un mistero per nessuno che fosse avversato da alcune conferenze episcopali - anzitutto quella francese - che vi vedevano il rischio di «dare ragione» ai seguaci dello scisma di monsignor Marcel Lefebvre.

In realtà, contrariamente a quanto si legge in questi giorni, non è affatto probabile che in seguito al Motu proprio i seguaci del defunto monsignor Lefebvre tornino all'ovile. I problemi che li dividono da Roma non riguardano solo la liturgia. Essi rifiutano anche l'ecumenismo e gli insegnamenti del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa, temi che a Benedetto XVI sono carissimi e su cui il Papa non intende transigere.

Ma, se non si tratta di una strategia per recuperare l'insidioso scisma lefebvriano, perché Benedetto XVI liberalizza la Messa di san Pio V?
Il problema riguarda un tema cruciale del pontificato di Joseph Ratzinger: l'interpretazione del Concilio Vaticano II.

Come illustrato già nei suoi primi auguri di Natale alla Curia romana, del 22 dicembre 2005, il Papa ritiene che uno dei maggiori problemi della Chiesa sia l'esatta comprensione del ruolo del Concilio.
Benedetto XVI distingue fra i documenti del Vaticano II - che ritiene fondamentali per definire il ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo, specie in tema di rapporti con le altre religioni e con gli Stati - e la loro interpretazione «postconciliare». Con chi, come i «lefebvriani», rifiuta i documenti del Concilio i margini di dialogo rimangono molto stretti.
Ma del tutto diverso è il discorso che riguarda il cosiddetto «postconcilio». Qui, secondo il Papa, si sono scontrate due linee di interpretazione del Vaticano II: «due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra ha portato frutti».

Quella che ha creato confusione, secondo Benedetto XVI, è l'«ermeneutica della discontinuità e della rottura» secondo cui il Concilio è stato una rivoluzione nella storia della Chiesa che ha fatto diventare fuori moda, reazionario e inutile tutto quanto esisteva prima. Al contrario, per portare frutti il Vaticano II deve essere interpretato non come una rottura, ma in continuità con tutto il magistero precedente. La descrizione dei tempi del postconcilio da parte di Benedetto XVI è a tinte fosche. Il Papa paragona il caos di quegli anni a una battaglia navale di notte su un mare in tempesta.
Ora, la bandiera di chi interpreta il Concilio secondo il paradigma della «rottura» è la riforma della liturgia (fatta non dal Concilio, ma dopo il Vaticano II) e soprattutto le restrizioni che vietano o rendono molto difficile celebrare la Messa di san Pio V. Infatti, se il Concilio rompe con tutta la tradizione precedente, chi resta attaccato al simbolo di quella tradizione - la Messa antica in latino - è fuori della Chiesa e deve essere isolato e perseguito.
Ma se invece il Vaticano II va interpretato in continuità con il passato, allora anche la Messa antica può coesistere con la nuova. Il Motu proprio di Benedetto XVI toglie allora ai sostenitori dell'«ermeneutica della discontinuità» la loro bandiera, e avvia una stagione dove - senza indulgenze per chi rifiuta i documenti del Vaticano II - la loro interpretazione in continuità con la tradizione diventa normativa.

Tratto da: Il Giornale, 30 giugno 2007

 

Deo Gratias, torna la Messa in latino
di Paolo Rodari

«In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti».
«Amen».
«Dominus vobiscum».
«Et cum spiritu tuo».

 



Torna il rito della messa in latino e lo si può celebrare seguendo due forme diverse: quella del Messale di Paolo VI che già oggi senza problemi viene celebrato in qualsiasi parrocchia e quello in cui il sacerdote celebra “spalle al popolo” seguendo invece l'antico rito sancito nel Messale di San Pio V riapprovato da papa Giovanni XIII nel 1962 ma che necessitava del permesso del vescovo della diocesi per essere utilizzato.
Torna e Benedetto XVI in una prefazione a un Motu Proprio a esso dedicato e prossimo all'uscita (probabilmente sabato 7 luglio, ma senza conferenza stampa) ne spiega ai vescovi i motivi: la riforma liturgica promossa nel Concilio Vaticano II non è - questo si evincerebbe tra le righe - in rottura con la tradizione passata ma piuttosto essa rappresenta una novità nella continuità.
Del resto, è uno dei leit motiv di tutto il pontificato del successore di Wojtyla: la corretta interpretazione dei dettami del Vaticano II.
È una decisione, quella del papa, che va incontro non tanto (anche, ma non solo) al ristretto gruppo ultratradizionalista degli scismatici lefebvriani che mai hanno rinunciato a celebrare con l'antico rito, ma soprattutto a tutti quei fedeli (ne basteranno pochi riuniti in un «gruppo stabile» per avanzare esplicita richiesta al parroco perché celebri loro la messa con l'antico rito) che vedono nella cura e nel rispetto della tradizione un aiuto per la propria fede.
Torna, dunque, la messa in latino anche secondo la forma più antica, torna tramite un Motu Proprio papale (un documento promosso da chi ne ha le facoltà) presentato ieri dallo stesso Ratzinger a un ristretto gruppo di rappresentanti di alcune conferenze episcopali mondiali.
Il tutto è avvenuto dopo una gestazione parecchio travagliata. Infatti, tra la prima riunione in cui il papa presentò il testo in Vaticano (era il dicembre dello scorso anno) e oggi, alcuni porporati hanno in qualche modo cercato di bloccarne del tutto l'uscita e poi, non riuscitici, a far passare qualche lieve modifica (comunque non sostanziale) al testo.
Tra questi, alcuni cardinali francesi che vedono nel ritorno dell'antico rito la possibilità di un ulteriore proliferare delle comunità tradizionaliste già molti forti Oltralpe e, sempre tra questi, oltre alle titubanze di Cormac Murphy-O'Connor, arcivescovo di Westminster, quelle di un porporato tedesco timoroso perché a suo dire alcune comunità ebraiche avrebbero avanzato delle rimostranze (poi non confermate dai diretti interessati) in quanto nel rito antico, ma in realtà non in quello rivisto nel 1962, il giorno del venerdì santo si prega anche "pro perfidis iudeis".
Il tutto mentre nei pressi dall'Ateneo di sant'Anselmo sull'Aventino a Roma (facoltà liturgica) c'era chi si riuniva per trovare le forme migliori (ad esempio tramite lettere di protesta) per dissuadere il pontefice dal suo intento.
Ma Benedetto XVI non si è fatto intimorire. Come è nel suo metodo di lavoro, ha trasmesso tempo addietro ai vescovi le sue intenzioni, ha ascoltato tutte le voci, ha fatto passare del tempo (parecchio tempo) e poi ha deciso.

Ratzinger, già quando era cardinale, si era più volte espresso in favore della completa liberalizzazione dell'antico rito.
Anche nei suoi ormai leggendari volumi “Introduzione allo spirito della liturgia” e “Il Dio vicino” aveva manifestato il valore unico di una celebrazione rimasta nel cuore, ancora oggi, di tanti fedeli.
E l'altro ieri pomeriggio - è quanto ha comunicato la sala stampa della Santa Sede ieri - egli ha partecipato in Vaticano a una riunione, presieduta dal cardinale Segretario di Stato (erano presenti anche Ruini, Bagnasco, Castrillon Hoyos, Lehman, Murphy O' Connor, O'Malley, Ricard, Barbarin e Koch), in cui è stato illustrato il contenuto e lo spirito dell'annunciato Motu Proprio e pure il contenuto della prefazione scritta di suo pugno.
Cosa dice esattamente il Motu Proprio? Cosa l'introduzione papale? Quanto al Motu Proprio (pare non sia un testo particolarmente breve), oltre alla conferma che il rito della messa in latino (il rito romano) è uno e che due sono le forme con le quali può essere celebrato (Messale di Paolo V e Messale di san Pio V rivisto da Giovanni XIII), viene spiegato come, per quanto riguarda il Messale del 1962 (messa in latino “spalle al popolo”) non serva più l'esplicito permesso dei vescovi per essere utilizzato.
Il papa, col Motu Proprio, autorizza qualsiasi gruppo di fedeli, purché riunito in un «gruppo stabile» e dunque conosciuto in parrocchia, a chiedere al proprio parroco il permesso per la celebrazione.
E questi deve concederla senza necessariamente informare il vescovo, il quale tuttavia in caso di controversie ha l'autorità per intervenire.
Inoltre - ed è questa una nota fondamentale e che, se confermata, farà contenti tutti i tradizionalisti d'oggi - chi celebra col Messale del 1962 pare possa continuare a seguire anche il lezionario antico che, a differenza di quello che si segue oggi, contiene meno letture le quali si ripetono (sempre le stesse) nell'arco di un solo anno liturgico e non, come avviene ora, nel corso di tre anni.
Quindi, chi parteciperà alla messa della domenica celebrata col Messale di San Pio V rivisto nel 1962 potrà capitare che ascolti delle letture diverse da chi partecipa a una messa col rito post conciliare.****
La liberalizzazione concessa dal papa avviene nella consapevolezza che l'antico Messale in realtà non venne mai abolito.
Infatti, dopo la riapprovazione nel 1962 operata dal “papa buono”, fu Giovanni Paolo II, nel 1984 con la “Lettera circolare Quattuor abhinc annos”, nel 1988 con il “Motu Proprio Ecclesia Dei” e dieci anni più tardi, nel 1998, con l'“Allocuzione per il decimo anniversario dell'Ecclesia Dei”, che ne confermò l'utilizzo previo consenso del vescovo della diocesi di appartenenza.
Ma col nuovo Motu Proprio a firma Benedetto XVI le cose divengono ulteriormente più agevoli perché il permesso dei vescovi non è più necessario. Insomma, tra qualche giorno, quando il testo del Motu Proprio uscirà ufficialmente, i fedeli che lo desiderano, se riconosciuti in un «gruppo stabile», potranno uscire di chiesa rispondendo «Deo, gratias» all'«Ite missa est» finale.

[5] Cfr Ioannes Paulus Pp. II, Litt. ap. Motu proprio datae Ecclesia Dei (2 iulii 1988), 6: AAS 80 (1988), 1498.

Tratto da:Il Riformista, 29 giugno 2007

 

Perché Ratzinger ha fatto tornare la messa in latino
di Antonio Socci

 

Cosa c'è dietro la storica decisione di Benedetto XVI di restituire alla Chiesa il suo tradizionale rito millenario? È una scelta di portata epocale, contro la quale il Papa ha subìto pressioni pesanti da vescovi progressisti (pochi giorni fa Enzo Bianchi, con sicumera, annunciava alla Stampa: "Ratzinger non lo farà". In effetti il Motu proprio è di Benedetto XVI).
La scelta era già stata prefigurata e legittimata (...) da Giovanni Paolo II con i primi passi degli anni Ottanta. E proprio nello stretto rapporto fra questi due Papi bisogna indagare per capire. Bisogna scoprire i retroscena degli ultimi mesi di pontificato di Papa Wojtyla. L'8 gennaio 2005, sentendo ormai avvicinarsi la fine, Giovanni Paolo II, durante un pranzo con alcuni prelati di Curia (Herranz, Castrillon Hoyos, Lopez Trujillo e lo stesso Ratzinger), esprime la sua preferenza, come successore, proprio per il suo braccio destro bavarese. Vede in lui non solo l'amico fedele e prezioso (anche per le valutazioni critiche da lui espresse), ma l'unico che può tentare di riportare la barca di Pietro fuori dalla tempesta del post Concilio.



Un segreto da svelare



Il mese successivo, il 13 febbraio, muore a Coimbra suor Lucia, l'ultima veggente di Fatima, la depositaria del messaggio profetico della Madonna sui nostri anni, messaggio che - secondo Giovanni Paolo II - va accostato addirittura alle profezie bibliche, il cui valore non è affatto "facoltativo" riconoscere se lo stesso Papa Wojtyla affermò solennemente che bisogna «ascoltare il comando che fu dato (a Fatima, ndr) da Nostra Madre, preoccupata per i suoi figli. Ora questi comandi sono più importanti e vitali che mai». Anzi, disse il Papa, «l'appello fatto da Maria, nostra Madre, a Fatima è più attuale di allora e persino più urgente... fa sì che tutta la Chiesa si senta obbligata a rispondere alle richieste di Nostra Signora. Il Messaggio impone un impegno su di essa». Espressioni decisamente gravi, che impediscono di declassare il "segreto" a semplice e non-vincolante materia per appassionati. E fanno capire perché, per 40 anni, senza che ciò trapelasse, dentro le mura vaticane quel messaggio è stato un'autentica ossessione, oggetto di mille riunioni, timori e inquiete considerazioni. Ebbene, la morte di suor Lucia nel febbraio 2005 pone a Papa Wojtyla un problema di coscienza. Suor Lucia infatti aveva consegnato alle autorità ecclesiastiche il testo del "Terzo Segreto" nel 1944 esigendo da loro l'impegno a rivelarlo nel 1960 (secondo quanto le aveva detto la Madonna) o al momento della sua morte. Nel 1960 non fu rivelato per decisione di Giovanni XXIII che - atterrito dal suo contenuto - espresse il dubbio se fosse di origine soprannaturale o un pensiero di suor Lucia. Contiene, per quanto si è capito, una profezia sull'apostasia nella Chiesa e, collegata, un'altra profezia agghiacciante sul mondo, come il Papa svelò a Fulda. In un recente colloquio monsignor Capovilla che da segretario di Giovanni XXIII ha conosciuto quel testo - ci ha confidato che lì la suora (perché lui non lo attribuisce alla Madonna, ma alla veggente) avrebbe «scritto le sue riflessioni sul vescovo vestito di bianco». Un commento alla visione? O sulla strana e ambigua espressione «vescovo vestito di bianco»? Quando Giovanni Paolo II si recò a Fatima nel 1982 suor Lucia tornò a chiedergli la pubblicazione del Terzo Segreto e il Papa le rispose di no perché «potrebbe essere male interpretato». Evidentemente una simile espressione si riferiva a qualcosa che imbarazzava la Chiesa, come poi confermarono la parole di Ratzinger del 1996 sui "dettagli" di quel testo che potevano nuocere. Nel 2000 fu svelata la parte della visione, come si è detto, ma non quelle impressionanti parole pronunciate dalla Madonna di cui conosciamo l'incipit che suor Lucia aveva già rivelato («In Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede ecc»). Alla morte di Lucia il Papa si sentì in dovere di tener fede all'impegno assunto con la veggente che quel 13 maggio 2000, davanti alle telecamere di tutto il mondo, gli consegnò una lettera il cui contenuto resta tuttora misterioso (come molti suoi scritti e memorie segretati). Ma come rendere nota quella parte del Terzo Segreto che ha atterrito tutti i Papi che l'hanno letta? Questo era il problema.



Indiscrezioni vaticane



Da notizie riservate in nostro possesso, confermate da tre autorevoli fonti vaticane, risulta che Papa Wojtyla e il cardinale Ratzinger decisero di tener fede all'impegno rivelando quel contenuto in una forma velata, cioè nei contenuti essenziali, ma senza dichiararne la fonte. L'occasione scelta fu la Via Crucis del venerdì santo che nel 2005 cadeva il 25 marzo. Fu infatti una Via Crucis molto insolita non solo perché, stranamente, a scriverne il testo fu il cardinale Ratzinger, ma anche perché segnò il passaggio di consegne fra Papa Wojtyla (che sarebbe morto una settimana dopo) e lo stesso prelato.
Sicuramente quel drammatico testo fu scritto o riveduto a quattro mani, una sorta di testamento comune dei due pastori. I passaggi che fecero più impressione furono proprio quelli dov'era racchiuso il "Quarto Segreto". Fin dalla prima stazione c'è un riferimento penitenziale all'infedeltà di Pietro: «Quante volte abbiamo, anche noi, preferito il successo alla verità, la nostra reputazione alla giustizia. Dona forza, nella nostra vita, alla voce sottile della coscienza, alla tua voce. Guardami come hai guardato Pietro dopo il rinnegamento». Quindi viene «alla storia più recente», a riconoscere «come la cristianità, stancatasi della fede, abbia abbandonato il Signore». Denuncia «il potere delle ideologie, intessute di menzogne» che «hanno costruito un nuovo paganesimo» e per eliminare Dio, hanno eliminato l'uomo. Ma, aggiungono i due autori, «non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c'è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c'è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!... Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue, è certamente il più grande dolore del Redentore». E ancora: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti... Con la nostra caduta ti trasciniamo a terra e Satana se la ride, perché spera che non riuscirai più a rialzarti. Tu però ti rialzerai».


Il senso del Motu proprio



Come si deduce anche da queste parole, qualcosa di grave dev'esserci, nel messaggio di Fatima, che si riferisce alla liturgia e alla crisi del clero (a migliaia lasciarono l'abito dopo il Concilio). Non è un caso se il cardinal Ratzinger - sempre molto misurato - sul colpo di mano della riforma liturgica del 1969 è stato durissimo: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita "etsi Deus non daretur": come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta. Ma se nella liturgia non appare più la comunione della fede, l'unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero di Cristo vivente, dov'è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale?».
Dunque l'attuale Motu proprio rappresenta un grande tentativo di riparazione e un grido di aiuto al Cielo. I due autori della Via Crucis del 2005, confessavano che «proprio in quest'ora della storia viviamo nell'oscurità di Dio» e poi citavano quello stesso apocalittico versetto del Vangelo di Luca che citò Paolo VI in riferimento al nostro tempo, laddove Gesù si chiede: «Ma il Figlio dell'Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Il testo della Via Crucis faceva un chiaro riferimento alle parole della Madonna a Fatima («Alla fine il Mio Cuore Immacolato trionferà»). Infatti sotto la croce «i discepoli sono fuggiti, ella non fugge. Ella sta lì, con il coraggio della madre, con la fedeltà della madre, con la bontà della madre e con la sua fede che resiste nell'oscurità... Sì, in questo momento Gesù lo sa: troverà la fede». C'è l'eco delle parole che la Madonna disse a S. Caterina Labouré nel 1830 parlando del nostro tempo: «Il momento verrà, il pericolo sarà grande, si crederà tutto perduto. Allora io sarò con voi». Come si vede la successione fra i due Pontefici avviene nel segno di Fatima. Lo fa pensare anche l'inquietante frase pronunciata dal nuovo Papa nella messa di insediamento, il 24 aprile 2005 («pregate per me, perché io non fugga per paura davanti ai lupi») che ricorda il Papa martirizzato del Terzo Segreto.


Tratto da: Libero, 1 luglio 2007

 

Approcio di un giovane sacerdote al rito di San Pio V

Mi è stato chiesto di scrivere un articolo sul mio approccio da giovane sacerdote alla celebrazione della S. Messa in latino, secondo il rito "antico", detto di S. Pio V, riformato dal Beato Giovanni XXIII. Con piacere desidero ottemperare a questo impegno cercando, per quanto possibile, di esprimere quello che ho vissuto. Premetto che il mio approccio alla S. Messa in latino, seppur nel rito “moderno”, secondo il messale di Paolo VI, è avvenuto fin da bambino. Nella mia comunità di Grado (GO), nota località turistica, durante l'estate la S. Messa solenne veniva cantata e celebrata in lingua latina, per venire incontro alle esigenze dei fedeli, soprattutto stranieri. Le letture venivano proclamate in più lingue: italiano, tedesco, francese, inglese. Già durante il seminario minore, mi sono dedicato all'approfondimento del latino classico e anche del latino ecclesiastico, avvicinandomi al messale sia di Paolo VI che di S. Pio V. In teologia, durante i corsi di liturgia, praticamente il messale di S. Pio V si ignora o lo si cita alla stregua dei "documenti" e libri liturgici del passato, sottintendendo che nulla ha a che fare con noi. Anche se poi nessuno dice questa frase, i liturgisti lo fanno ben capire. Per conto mio allora ho "studiato" il messale di S. Pio V andando ad assistere un paio di volte a Udine alla celebrazione della Messa Tridentina. Da sacerdote, e questo in tempi molto recenti, ho invece ripreso questo Messale non più per studiarlo, ma per pregarlo, per viverlo. Il Papa Benedetto XVI con il “motu proprio” ha ribadito una cosa importante, ma che è stata sempre dentro di me: non c'è discontinuità nella celebrazione, ma continuità, la liturgia "moderna" post-conciliare (Vaticano II) esiste solo e perché c'era qualcosa prima, non è un'evoluzione della liturgia ma è la continuità e il prosieguo di quella precedente, che non è stata "abolita". La preoccupazione del Vaticano II era quella della partecipazione del popolo e della comprensione del rito. E questo lo condivido. Ma il mio giudizio, che è quello di un povero prete, è che la riforma abbia svuotato per semplificare, tolto molte cose per "agilità " o perché troppo difficili da capire o da celebrare. Ma allora vi pongo una domanda: oggi, nella messa "moderna", riusciamo a svelare il mistero che è Dio? Amo ripetere che mistero non vuol dire un qualcosa di non conoscibile, ma mistero vuol dire essenzialmente infinito, e in quanto infinito la nostra percezione è solo di una minima parte, a seconda del nostro orizzonte, di quel poco con cui veniamo in contatto. Nel pregare il messale di S. Pio V ho ritrovato una ricchezza straordinaria, non solo di parole, ma anche di gesti e di simboli, un immergermi nel Mistero di Dio e quindi nell'infinito che è Dio stesso, per cui ho avuto un contatto maggiore rispetto a prima. Rimane la difficoltà della comprensione, almeno per il popolo, ma questo si supera con la proclamazione della Parola di Dio in lingua volgare (lingua del popolo per cui si celebra) e dei libretti e sussidi con la traduzione dei testi dal latino. Così, non solo i preti hanno la possibilità di studiare la Messa di S. Pio V, ma anche il popolo ha la possibilità di immergersi ancora di più nel mistero di Dio. L'esperienza e il passo che il Papa Benedetto XVI ha fatto è di un' apertura straordinaria, non solo per i "nostalgici", ma ci ha restituito un patrimonio che è nostro, che appartiene alla Chiesa. La Chiesa è Madre e Maestra: è madre che ci nutre della Parola di Dio e dei Sacramenti, è Maestra perché ci insegna ad amare Dio e il prossimo come Cristo ci ha insegnato. Sia lodato Gesù Cristo.
don Gilberto Dudine
parroco di SS. Nicolò e Paolo - Monfalcone (GO)