Io penso ed affermo: non è la libertà che ci fa veri, ma è la verità che ci fa liberi. "Siamo letteralmente invasi dai travisamenti e dalle menzogne: i cattolici in larga parte non se ne avvedono, quando addirittura non rifiutano di avvedersene. Se io vengo percosso sulla guancia destra, la perfezione evangelica mi propone di offrire la sinistra. Ma se si attenta alla verità, la stessa perfezione evangelica mi fa obbligo di adoperarmi a ristabilirla: perché, dove si estingue il rispetto della verità, comincia a precludersi per l'uomo ogni via di salvezza" (Card. G. Biffi).

 

 

La Madonna e la Battaglia della Montagna Bianca.

La Chiesa di S. Maria della Vittoria - dove nella cappella Cornaro è conservata la celebre Santa Teresa di Giovan Lorenzo Bernini - deve il suo nome a un' immagine della Madonna trovata in un castello della Boemia dal carmelitano scalzo Domenico di Gesù e Maria.

A questa tavoletta - rappresentante la Madonna col Bambino, S. Giuseppe e due pastori - fu attribuito il merito della vittoria della Montagna Bianca, riportata nel 1620 dagli eserciti cattolici dell' imperatore Ferdinando II d' Asburgo nei pressi di Praga. Questa battaglia, in cui le truppe imperiali sconfissero i rivoltosi boemi che avevano proclamato un re calvinista, fu uno degli scontri più rilevanti della famosa Guerra dei Trent' anni che insanguinò l' Europa tra il 1618 e il 1648. Avvenimento epocale per tutto il mondo cattolico, la sconfitta degli eserciti protestanti fu paragonata alla vittoria di Lepanto riportata circa cinquant' anni prima contro i turchi. Dopo essere stata portata in trionfo in numerose città europee, tra cui Monaco e Vienna, l' immagine miracolosa fu esposta all' adorazione dei fedeli nella basilica romana di S. Maria Maggiore. Da qui, l' 8 maggio del 1622, nel corso di una solenne processione in cui furono inalberati vessilli e stendardi tolti al nemico, venne trasportata nella nuova chiesa fatta edificare dall' ordine dei carmelitani e in precedenza dedicata a S. Paolo. Nel giugno del 1833 andò distrutta nell' incendio che devastò il presbiterio e in seguito è stata sostituita da una copia. Angela Groppi CHIESA DI S. MARIA DELLA VITTORIA, via XX Settembre.

 

 

 

La scuola? Al servizio non della cultura, ma dell'ideologia dominante.

Intervista a Monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino

(C) " il Resto del Carlino", 28/10/2008

 

Ho vissuto per quarant'anni nell'ambito dell'educazione e della scuola e mi sono occupato a fondo della libertà dell'educazione in Italia. Intervengo per dire qualcosa di serio e di costruttivo che dia un po' di dignità e ragionevolezza, cioè andando oltre quello che vediamo e sentiamo ogni giorno. Abbiamo proprio visto di tutto: bambini che sfilano in corteo sotto striscioni che fanno fatica a leggere, insegnanti in lutto, politici che sproloquiano nelle scuole dell'infanzia, i reduci del '68 che si infiltrano nei cortei come per prendere una boccata di ossigeno che allontani di qualche tempo l'ineluttabile “rigor mortis”. Così il “virtuale” si è sostituito al reale: ed in un'orgia di isterismo e disinformazione abbiamo dimenticato la realtà quotidiana. La realtà quotidiana è che nella scuola italiana si fa fatica a studiare e ad imparare perché l'insegnamento si è dequalificato. Abbiamo dimenticato che nella scuola italiana si può morire di spinello durante le ore di scuola; che durante gli intervalli si filmano scene di sesso che vengono poi inviate ormai a vari siti; che in certe scuole, non poche, durante l'intervallo gli insegnanti stanno tappati nell'aula professori per evitare violenze non solo verbali; che presidi e professori sono stati malmenati da genitori e studenti per protesta a certe valutazioni scolastiche; che più di una volta i carabinieri sono entrati in varie scuole ad arrestare studenti spacciatori di droga. Questa non è tutta la realtà, ovviamente, ma è un pezzo della realtà scolastica che dovrebbe interpellare tutti, soprattutto gli adulti, seriamente. Alcune delle cose predisposte dal Ministro – ovviamente mi evito un giudizio analitico che non mi compete – mi sembrano dettate dalla più grande virtù del popolo italiano: il buon senso. Comunque bisogna proprio riconoscere che in Italia sono impossibili due cose parlare male di Garibaldi e tentare di riformare la scuola. La scuola dello Stato Italiano fa corpo totalmente con l'idea della Nazione e dello Stato ed ha costituito negli ultimo 150 anni del nostro paese una sorta di liturgia di questo universale culto dello Stato. La verità è che la scuola italiana è sempre stata al servizio non della Cultura, ma della ideologia dominante. Così abbiamo avuto la scuola unitaria e liberale e poi la scuola fascista e poi la scuola azionista e socialista. I cattolici sono stati così improvvidi che negli anni '50 e '60 hanno tirato fuori la strampalata teoria della scuola “neutra” che ha favorito la sua occupazione da parte delle più diverse ideologie rivoluzionarie e negative. Abbiamo avuto la scuola marxista e neo-marxista e radicaleggiante: e adesso abbiamo la scuola tecno-scientista. Mi sembra venuto il momento di andare, se possiamo e vogliamo, oltre questo schema ideologico e ricordarci che la scuola non deve servire nessuna ideologia ma la cultura: cioè l'istanza di senso ultimo, di verità, di bellezza e di giustizia che caratterizzano la coscienza dell'uomo nel suo porsi immediato. Allora forse ci si renderà conto che la scuola deve essere un ambito di convivenza libera, fra culture diverse (perché nel nostro Paese ci sono ormai culture diverse) e la convivenza libera e impegnata di queste culture deve sostenere un insegnamento, a tutti i livelli, appassionatamente critico: cioè formatore di personalità critiche. Potrà apparire allora assolutamente legittimo e necessario il formarsi di un sistema scolastico che, gestito dallo Stato, sia libero e pluralistico nelle sue articolazioni educative, culturali e didattiche. Senza pluralismo educativo e scolastico muore la democrazia: perché la democrazia è anzitutto un costume, un dialogo profondo, libero e rispettoso fra culture diverse, che proprio nella consapevolezza critica della propria diversità contribuiscono al bene comune del Paese. Marco Minghetti, ministro della Pubblica Istruzione del neonato Regno di Italia concludeva il dibattito parlamentare sullo stato dell'istruzione del Paese nel 1864 con queste parole: “In linea di principio sarebbe meglio un sistema di libertà scolastica, ma se ne approfitterebbero i clericali”. Dobbiamo amaramente riconoscere che la questione scolastica, in Italia, è ferma a queste parole. Nel dibattito (si fa per dire) che si è acceso in questi mesi tre personalità (e non della “mia parrocchia”) mi hanno colpito per l'intelligenza, la libertà e l'equilibrio con cui sono intervenute: Luigi Berlinguer, Giampaolo Pansa ed Aldo Forbice. Oltre ovviamente il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cui va la mia gratitudine di cittadino italiano e di vescovo della Chiesa Cattolica. martedì 28 ottobre 2008 + Luigi Negri, Vescovo di San Marino - Montefeltro


(C) " il Resto del Carlino", 28/10/2008

 

 

 

 

 

Defensor Fidei
Scritto da: Gianpaolo Barra il 13-11-2008

Defensor Fidei . Così mons. Alessandro Maggiolini viene ricordato in queste ore successive alla sua morte, avvenuta martedì 11 novembre, nell'ospedale di Como dove era ricoverato da più di un mese.

 


Ma avendolo conosciuto nei non pochi incontri che aveva dedicato alla redazione del Timone – rivista che amava e sulla quale ha scritto diversi articoli – viene in mente anche un'altra definizione per don Sandro, come confidenzialmente si lasciava chiamare da chi lo conosceva da tanto tempo: pastor bonus, il buon pastore che ama le pecore che gli sono state affidate e soprattutto sa ascoltarle per poi poterle consigliare, o assolvere sacramentalmente, come faceva mons. Maggiolini nelle tante ore che ancora poche settimane prima di morire trascorreva in confessionale, nel Duomo della sua ultima diocesi.

Con alcuni collaboratori del Timone , sono andato a trovarlo diverse volte. Ci ha sempre accolto con generosa ospitalità, e mai ha mancato di offrirci suggerimenti preziosi di cui abbiamo tenuto conto nel confezionare il nostro mensile apologetico.

Alcune settimane fa, mi aveva telefonato e annunciato come imminente la sua morte. Ricordo bene le parole: «ne ho ancora per due giorni…». Quando ebbi modo di dirgli che speravo la situazione non fosse così grave, mi aveva detto: «Ma io non ho paura di morire, ho sempre voluto bene a Gesù e so che Lui mi accoglierà con grande misericordia». Ho avuto proprio l'impressione che fosse una telefonata di addio, dell'ultimo saluto e ne sono rimasto profondamente colpito.

Poi, mi aveva incoraggiato a continuare l'opera cominciata con il Timone che, mi aveva ribadito, fa un gran bene alla Chiesa e al mondo cattolico. Era contento, davvero contento, del nostro lavoro. Quando le forze glielo consentivano, scriveva volentieri per la nostra rivista e – lasciatemelo dire – non voleva alcun compenso.

Il Timone lo ringrazia ancora una volta per i consigli, per l'affetto sincero e manifesto, per l'esempio di un Pastore attento all'integrità della dottrina e alla necessità di trasmetterla in modo comprensibile e adatto al nostro tempo, e anche per l'attenzione alle persone e alle loro esigenze spirituali e materiali.

Egli saprà dal Cielo – dove speriamo e preghiamo che il Signore lo abbia subito accolto – continuare a portare il suo aiuto intelligente e disinteressato. Invito tutti i lettori e gli abbonati del Timone a pregare per la sua anima buona: siate certi che don Sandro saprà ricambiare con generosità.

Ecco, di seguito, l'ultimo articolo scritto da Mons Maggiolini, che la Provvidenza ha voluto fosse dedicato proprio alla morte e fosse scritto per Il Timone . Gli altri li potrete trovare nel sito del Timone ( www.iltimone.org )

 

 

 

 

 

La morte: tappa o termine della vita?

di Mons. Alessandro Maggiolini


Sfogliamo il Nuovo Testamento. «Dio ha stabilito che ogni uomo muoia» e allora «dovrà rendere conto del bene e del male compiuto». Non vi è eccezione: il destino di ciascuno è quello di vedersi troncare la libertà di decidere il proprio destino e di lasciare che il Signore tragga le conseguenze del proprio amore accettato o rifiutato.
Mi metto sul bordo di Viale Certosa, quello che porta al Cimitero comunale: motori che rombano e sfrecciano nel traffico cittadino, gonne variopinte al vento, perché la vita è bella - questo è il ritornello - e bisogna spremerla fino alla feccia del piacere. E accanto, lemme lemme e silenzioso, passa il carro funebre per di più mascherato da automobile civile, poiché sembra che ci si sia accordati per non pensare e alludere mai alla morte: e se nei discorsi comuni cade il tema, appare subito una sgarbatezza. Siamo eterni? Mi torna alla mente la novella di Pirandello dove il conduttore del carro funebre ha lasciato il mestiere del cocchiere civile e, per l'abitudine che ha, si avvicina al marciapiede dove un signore impettito cammina verso l'ignoto e si sente invitare: «Signore, vuoi salire? C'è posto».
Non c'è bisogno di molti ragionamenti: la vita, lunga o breve che sia, viene spezzata. E che cosa ci attende, dopo? E perché questa cesura, violenta o dolce, che pone fine alla nostra libertà? O meglio: che libera o imprigiona la nostra libertà?
Già. Poiché si può anche fingere per tutta la vita di giocare al girotondo dei giorni e degli anni. Ma la vita non è un cerchio che ritorna monotonamente su se stessa: è un vettore - se si vuoi parlare in termini scientifici - che ha un inizio e ha inevitabilmente un termine. Davvero si tratta di un termine? All'ultimo sospiro, che cosa succede? Si dà un annientamento della persona? Ma la persona è creata e redenta per l'eternità: per una eternità che si rinnova ogni momento.
Ed ecco l'interrogativo sul "dopo" che aiuta a cogliere il senso del morire e del vivere che ne può seguire. È un pensiero che può rivelarsi angoscioso quello di chi intuisce che esiste un termine al costruire il proprio destino in un dialogo di amore con Dio che può essere accolto piangendo di commozione, o rifiutato con rabbia irrivedibile.
Ma come? In un tempo come il nostro, dove tutto sembra essere dominabile, ha ancor senso accennare, sia pure di striscio, o buttare in faccia alla gente il destino eterno di beatitudine o di dannazione? E l'uomo non è fatto per la felicità che gli spot pubblicitari presentano ossessivamente? E che senso ha il peccato in sé e nelle sue conseguenze, quando ciò significa il fallimento della persona?
Ma si ponga che la vita terrena non abbia una conclusione.
La monotonia e una noia mortale non opprime i nostri giorni?
Ricordo una pagina di Gratry, il quale, alla fine delle scuole secondarie, si interroga sul suo domani: professore universitario? Lavoratore della terra? Poeta? E le domande che si ripresentano martellanti: e poi? E poi? Poi giunge un'ora di definitività e si prenderà coscienza di una solitudine disperata a cui si è votati o di una gioia larga come il cielo e splendente, dove ci attende il Signore che ha voluto morire per noi e che, risorto, ci attende a braccia aperte, impaziente.
Ecco il dramma della vita che non può essere cancellato come una banalità, né quando si è in chiesa, né quando si è al supermercato. Il Signore del cielo e della terra, l'Amore senza limiti che si è lasciato affiggere alla croce per noi ci attende.
Uno può anche fingere che tutto ciò sia fola di ritorno da un medioevo terrificante. E invece non si è che davanti al mistero della libertà: della libertà di chi stabilisce il proprio futuro e di chi non può impedire che Dio lo ami immisuratamente come vuole: può tentare di dimenticare questo orizzonte di ambiguità, ma non può impedire che Dio ami. E Dio, nel Signore Gesù, attende almeno una invocazione alla misericordia.
Buona morte. Che significa: buona vita, poiché la gioia che ci attende ha le sue anticipazioni anche nel nostro povero e traballante calendario. San Tommaso parla della grazia di Dio come di «praelibatio vitae aeternae»; c'è bisogno di tradurre?
«Expertus potest credere quid sit Jesum dirigere». C'è bisogno di tradurre?
A partire da queste considerazioni ci si può inoltrare nel mistero del male e della felicità - anche dell'attesa, prima del paradiso -, di cui ancora recentemente il Papa ha parlato nella sua splendida enciclica sulla Speranza. Perché lasciare cadere questi testi di un professore universitario che si fa umile fedele e alunno della Parola divina e fratello della sorte universale degli uomini?
Certo, ci si può anche lamentare perché la Chiesa sembra aver paura di toccare questi temi del destino eterno, e pare taccia per il timore di non essere accolta o per il desiderio di assecondare la direzione del vento della sciatta moda culturale di oggi - se si può parlare di cultura -. Il fatto è che quando il Papa, con lucidità di mistico, e con la semplicità del contadino che sale in cattedra, non dimentica la fatica di vivere; quando anche il Papa parla di questi argomenti, si volge l'attenzione ad altro. E invece, unica è la cosa necessaria nella vita. Chi ricorda il Catechismo sa bene a quali verità si allude. I Novissimi sono sempre certezze attuali e incidenti nella vita di ogni giorno.


(IL TIMONE – novembre 2008)

 

 

 

 

 

Alessandro Angelo Persico, Il caso Pio XII. Mezzo secolo di dibattito su Eugenio Pacelli, Guerini & Associati, Milano 2008

A cinquant'anni dalla morte di Eugenio Pacelli (1876-1958), asceso al soglio pontificio nel 1939 con il nome di Pio XII, si moltiplicano gli interventi dei mass media e gli studi scientifici. Fra questi ultimi va segnalata l'opera del giovane storico Alessandro Angelo Persico, allievo di Agostino Giovagnoli, docente di Storia Contemporanea all'Università Cattolica di Milano, che firma la Prefazione (pp. IX-XVII). Persico non presenta documenti nuovi ma ricostruisce il complesso dibattito storiografico sviluppatosi intorno alla figura del Pontefice, che si è ampliato progressivamente fino a toccare molti aspetti della storia della Chiesa cattolica nell'età contemporanea, dal rapporto con gli ebrei alla questione del comunismo e all'atteggiamento verso la modernità.
Dopo un capitolo introduttivo su I papi del Novecento fra ecclesiologia e storia (pp. 1-64), Persico illustra l'origine delle polemiche sul Pontefice, Dal «Pastor angelicus» al «papa del silenzio» (pp. 65-126), partendo da un'affermazione della storica ebrea Anna Foa, secondo cui «[...] in un contesto apologetico "la leggenda rosa" è nata nel mondo ebraico, quella "nera" all'interno dello stesso cattolicesimo» (p. 77). Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, mentre eminenti personalità del mondo ebraico riconoscono il valore dell'azione pontificia a favore del popolo di Davide, alcuni cattolici dissidenti — primo fra tutti il modernista don Ernesto Buonaiuti (1881-1946) — sollevano dubbi sulla figura di Pio XII, che rappresenterebbe il punto di arrivo di un processo involutivo della Chiesa cattolica. A queste voci minoritarie si affiancano le critiche di esponenti del mondo laicista e anticlericale, come lo storico e uomo politico Gaetano Salvemini (1873-1957) e il polemista radicale Ernesto Rossi (1897-1967), che individuano nell'insegnamento del Pontefice i tratti caratteristici di una Chiesa intollerante e chiusa al confronto con la società. Su queste prese di posizione polemiche s'innesta la propaganda socialcomunista, volta ad affermare la tesi di una collusione vaticana con il nazionalsocialismo in funzione antisovietica.
È significativo, tuttavia, che la polemica sui «silenzi» di Pio XII sia nata, in tempi diversi, da due lavori non scientifici: l'opera teatrale del drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth Il Vicario, del 1963, che provoca una netta cesura rispetto al passato e una vera e propria personalizzazione della questione Chiesa-Olocausto intorno alla figura del Papa, e l'opera del giornalista inglese John Cornwell, Il Papa di Hitler. La storia segreta di Pio XII, del 1999, fantasiosamente argomentata ma in grado di suscitare un enorme impatto emotivo, sebbene cinque anni dopo sia stata rinnegata dal suo autore, secondo cui, alla luce dei documenti emersi in seguito, Pio XII avrebbe avuto una libertà d'azione così limitata da rendere impossibile ogni giudizio.
Ma, a partire dalla prima rappresentazione berlinese de Il Vicario — osserva Persico nel terzo capitolo, Gli anni Settanta: la nascita dei grandi nodi storiografici del dibattito (p. 127-190) —, per almeno un ventennio l'attenzione degli studiosi e dell'opinione pubblica è rivolta al solo Pontefice: si sviluppa così «l'idea di una Chiesa "antisemita", legata per due millenni a una tradizionale teologia antiebraica, il cui ineluttabile destino ha trovato pieno compimento con il pontificato di Pio XII» (p. 137). Più cauto, ricorda Persico, è il giudizio della storiografia, che con Renzo De Felice (1929-1996) sostiene in quegli anni come l'antigiudaismo cristiano sia stato un elemento portante della reazione cattolica contro la modernità e debba essere calato nel contesto più generale di opposizione allo Stato laico e liberale. Dopo la Rivoluzione francese del 1789, quando la Chiesa si trova impegnata in un conflitto senza precedenti contro il laicismo anticlericale e la modernità secolaristica, riaffiorano nella popolazione pregiudizi antigiudaici, senza però che il magistero cattolico smentisca l'insegnamento costante dei Pontefici in materia.
Negli stessi anni viene evidenziata una presunta cesura con Papa Giovanni XXIII (1958-1963), presentato dai mezzi d'informazione come il Pontefice di una Chiesa che aspirava a rientrare in contatto con il mondo. In particolare, lo storico triestino Giovanni Miccoli legge la storia della Chiesa contemporanea come il perdurare di un modello storico, quello intransigente, per difendere il quale l'istituzione ecclesiastica, dopo il Risorgimento, prima avrebbe cercato un compromesso con i governi liberali, quindi si sarebbe alleata con i regimi autoritari, ritenuti più affini ideologicamente. In questa direzione viene individuata anche una parziale discontinuità fra Pio XI (1922-1939) e il suo successore, appunto Pio XII, che non avrebbe condiviso la posizione antitotalitaria del primo. Infine, dopo il Concilio Vaticano II alcuni studiosi sottolineano la distanza fra il magistero «preconciliare» e le «novità» del Concilio. Fra questi, il gesuita Giacomo Martina considera l'evento come l'inizio di un nuovo corso nella storia della Chiesa, «[…] i cui caratteri devono però essere osservati alla luce di un continuo progresso e miglioramento verso una completa accettazione della libertà politica e di coscienza» (p. 184).
Nel dibattito de Gli anni Ottanta: dalla guerra al pontificato, dal politico al papa, da Pio XII alla Chiesa (pp. 191-245), l'attenzione di una parte della storiografia si sposta dal Papa alla Chiesa e si verifica un ampliamento della «questione pacelliana», sia con un interesse nuovo verso gli anni del dopoguerra, sia con un'attenzione maggiore per il progetto storico del Pontefice. Uno sforzo per inserire la figura di Pio XII nella complessità della storia contemporanea è stato compiuto da Andrea Riccardi, che con il volume Pio XII, da lui curato per Laterza nel 1984 — frutto di un convegno tenutosi a Bari nel 1982 — ha sottolineato quanto sia importante studiare non soltanto i primi sei anni del pontificato di Pio XII, quelli «bellici», ma tutto il lungo periodo successivo. Secondo Riccardi dopo la guerra Pio XII sceglie d'instaurare un rapporto diverso con i fedeli, scavalcando le classi politiche: «In una cornice politico-sociale in cui la verità proclamata dalla Chiesa cattolica non rappresentava più l'unica offerta spirituale disponibile, il papa si proponeva come maestro e guida, punto di riferimento morale per affrontare i problemi internazionali e nazionali di un mondo sconvolto» (p. 229). In quella fase, ritiene Riccardi, alla Chiesa sarebbero mancate le categorie culturali per comprendere la crisi in atto e dunque la reazione si sarebbe concentrata principalmente sul piano politico con una mobilitazione sempre meno percepita e lo scivolamento verso toni apocalittici. Ma ciò risponde solo in parte alla realtà: se è vero che il più grande problema della Chiesa italiana in quegli anni — secondo il giudizio unanime dei suoi responsabili — è la persistenza della questione comunista, è anche vero che non manca la consapevolezza dei pericoli rappresentati dalla crescente mentalità secolarizzatrice, sottolineati prima da L'Osservatore Romano, nel 1958, in una serie di articoli non firmati sull'«offensiva scristianizzatrice» (5 maggio 1958) allora in corso, poi dall'intero episcopato italiano con la lettera al clero su Il laicismo, del 25 marzo 1960.
A partire dagli anni 1990 — Dagli anni Novanta ad oggi: Pio XII fra antisemitismo cattolico, Shoah e mito della cristianità (pp. 247-331) è il titolo del quinto capitolo — l'attenzione degli storici si concentra sempre più sul rapporto fra Chiesa cattolica, antisemitismo e teorie razziali moderne. «Questione ebraica» e dibattito su Pio XII si sovrappongono ed è molto difficile distinguere fra i due temi nonché occuparsi di altri aspetti del pontificato. Si diffonde l'opinione secondo cui il razzismo europeo, pur rifiutando i fondamenti religiosi dell'antigiudaismo cristiano, ne abbia recuperato alcuni stereotipi, mentre la presunta rassegnazione ecclesiale verso la persecuzione degli ebrei confermerebbe lo schema che vede questa acquiescenza come la conseguenza di una mentalità ecclesiocentrica radicata nel cattolicesimo dell'ultimo secolo. È questa un'interpretazione diventata centrale nella lettura fatta da Miccoli della «questione ebraica» fra le due guerre mondiali.
Il mito della cristianità, per riprendere il titolo di un'opera dello storico Pietro Scoppola (1926-2007), avrebbe costituito un modello teologico e sociale e rappresentato un paradigma di lettura dal quale la Chiesa non sarebbe riuscita a emanciparsi neanche di fronte al manifestarsi di uno sterminio di massa. Non tutti gli studiosi, però, sono concordi nel ritenere il «silenzio» del Pontefice e della Santa Sede un problema culturale di lungo periodo, come emerge, per esempio, dalle critiche dello storico Luigi Matteo Napolitano e dello scrittore Andrea Tornielli alle tesi di Miccoli. Proprio la scarsa attenzione alla ricostruzione di Tornielli Pio XII. Un uomo sul trono di Pietro (Mondadori, Milano 2007) — citata peraltro da Benedetto XVI il 9 ottobre 2008 nell'omelia per la Messa in occasione del cinquantenario della morte di Pio XII — costituisce una lacuna dell'opera di Persico.
Quanto all'applicazione della cristianità quale categoria storiografica, diviene fondamentale per gli intellettuali cattolici progressisti, in particolare per Daniele Menozzi e Giuseppe Alberigo (1926-2007), studiosi di storia della Chiesa, dimostrare la sua infondatezza storica, oltre che teologica: l'ideologia della cristianità affonderebbe infatti le sue radici non in un fatto storico, ma in un mito, sviluppatosi durante l'età della Restaurazione al fine di ricuperare l'egemonia della Chiesa sulla società, trasformandosi, da Papa Gregorio XVI (1832-1846) fino a Papa Pio XII, in strumento ideologico di controllo e di condizionamento della vita della Chiesa e dell'azione dei laici nella società. Invece, secondo altri, come il filosofo Vittorio Possenti, resta attuale l'idea di cristianità, «intesa come incarnazione del messaggio evangelico in un determinato periodo storico all'interno di strutture politico-sociali» (p. 363).
In realtà, nell'immediato dopoguerra, la Santa Sede è mossa, più che da un progetto concreto di ampio respiro, da alcune preoccupazioni pressanti, come quella nei confronti del socialcomunismo, e dall'esigenza di rafforzare il cattolicesimo sia in Italia sia nel contesto internazionale, nella consapevolezza che si stava affrontando uno scontro di civiltà, nel quale era in gioco la libertà della Chiesa stessa. In questo contesto non vengono espresse preferenze verso una particolare forma istituzionale ma si opera perché gli ordinamenti rispettino l'identità cattolica del paese. Menozzi ha evidenziato che Pio XII non intendeva riproporre pedissequamente il modello medioevale di società cristiana, ma cercava di adattarlo al particolare contesto storico; la contrapposizione alla cultura moderna non condusse né al rifiuto degli strumenti da essa elaborati, né alla rinuncia a operare nel quadro dei suoi ordinamenti politici e giuridici. Ma, nel contesto della politica italiana, dove lo scontro con il comunismo ha rappresentato lo sfondo in cui la Chiesa ha dovuto operare, «vi era un distanza fra l'idea degasperiana [Alcide De Gasperi (1881-1954)] di "civiltà cristiana" e i richiami pacelliani alla "cristianità"» (pp. 321-322) a causa di una divaricazione di orizzonti, che non erano solo orizzonti politici.
Dopo aver esaminato nei capitoli conclusivi Storici e storiografie (pp. 333-376) e Il dibattito storiografico fra tribunalizzazione della storia e discussione teologica (pp. 377-407), Persico conclude che dalla metà degli anni 1990 è sempre più evidente il divario fra la ricerca storica e l'offerta mediatica, conseguente a quella «tribunalizzazione» della storia che ha contraddistinto il rapporto fra ricerca e memoria nel secolo XX. Ma «[...] il nodo centrale dell'interpretazione del papato contemporaneo è rimasto in molti casi legato all'ermeneutica del Vaticano II. Non è un caso, perciò, se anche il discorso su Pio XII ha continuato a essere influenzato da diversi orientamenti ideologici [...]. I progressi futuri della storiografia sul pontificato pacelliano dipendono, perciò, anche dalla possibilità di superare l'orizzonte del dibattito teologico ed entrare definitivamente su un terreno propriamente storico» (p. 407).

Francesco Pappalardo

 

 

 

 

La "guida Michelin" dei fedeli
di Andrea Tornielli, il Giornale, 9 aprile 2009



«Sai che differenza c'è tra un liturgista e un terrorista? Che con il secondo si può trattare...». La battuta, ferocissima contro la benemerita categoria degli esperti di liturgia, fece ridere di gusto l'allora cardinale Ratzinger, che prima di diventare Papa, inascoltato, chiese più volte tolleranza verso i tradizionalisti, criticando al contempo la messa «degenerata in show» che non di rado veniva celebrata nelle chiese cattoliche. Dittatura di certi liturgisti, creatività esuberante di certi sacerdoti che presiedono le funzioni rubando la scena al vero Protagonista per mettere, per lo più inconsapevolmente, se stessi o l'assemblea al centro dell'attenzione. Messe con l'accompagnamento di canti modulati sulle note dei successi dei Beatles, processioni d'offertorio che vedono portare all'altare praticamente di tutto, dagli scarponi rotti al ferro da stiro, balli che «c'azzeccano» come i cavoli a merenda con la nostra cultura e la nostra sensibilità, mentre hanno un senso in Africa o in Oceania. Chiese di nuova costruzione che sembrano concepite da architetti con seri problemi di adattamento e assomigliano ad enormi garage, a cupe caserme rivestite di piombo, a luminescenti centri commerciali o a insignificanti palestre. Con acustiche pessime, calde d'estate e fredde d'inverno. Luoghi di culto che a tutto inducono chi vi entra, tranne che alla preghiera, al raccoglimento, all'immergersi nel mistero.

Per districarsi in questo mondo, per capire quali siano le messe «da non perdere» e quelle perdibili, arriva in libreria la Guida alle messe (Mondadori, pagg. 313, euro 15), scritta da Camillo Langone, che in questi ultimi anni ha percorso in lungo e in largo parrocchie, chiese e santuari d'Italia partecipando alle liturgie domenicali e stilandone una classifica. La guida Michelin delle celebrazioni potrebbe sembrare un'operazione dissacrante. Le messe trattate alla stregua dei ristoranti, dalle cene di gala alla cena eucaristica, con tanto di votazione: al posto delle canoniche stellette, delle candele (da una a cinque) per classificare gli arredi della chiesa, e dei messali (sempre da uno a cinque), per valutare la «qualità» della liturgia. Langone non fa mistero di alcuni suoi chiodi fissi che diventano criteri di giudizio: le sedie e le panche con o senza inginocchiatoio, le candele vere o finte. La possibilità di genuflettersi durante la consacrazione dice molto di come si concepisce la liturgia in una chiesa. Complice la maggiore praticità delle sedie - più facile aggiungerle, toglierle, spostarle - ma soprattutto una serpeggiante ideologia liturgica che avverte come fumo negli occhi ogni atto di vera adorazione, si preferisce, al fine della «partecipazione attiva» del fedele, che se ne rimanga sempre in piedi o seduto. L'inginocchiatoio è importante e veramente democratico: nessuno vi punterà la pistola alla tempia, obbligandovi alla genuflessione. Ma chi vorrà liberamente farla, pur non avendo più vent'anni, sarà agevolato. E non sarà costretto a rimanere in piedi.
Langone ha ragione nell'osservare che la Chiesa post-conciliare sembra, talvolta, non tollerare più la bellezza. Sembra averla bandita, in nome del «pauperisticamente corretto». Eppure si legge nel Vangelo che Gesù, per celebrare l'ultima cena con i dodici, scelse proprio una «sala grande e arredata». Lui, che aveva vissuto nel deserto, mangiato sotto le tende o all'aperto, frequentato le case dei farisei e dei pubblicani, al momento di istituire l'eucaristia, e solo in quel momento, predilige un luogo signorile e bello, certamente non povero.

Il senso del mistero e la bellezza sono elementi essenziali del culto. E le chiese, nella storia, hanno sempre offerto a tutti, ricchi e poveri, signori e popolani, una straordinaria ricchezza di affreschi, mosaici, quadri, statue. L'aveva ben capito Stalin, che dopo aver raso al suolo le più belle chiese di Mosca, costruì delle popolari cattedrali laiche, le artistiche stazioni della metropolitana, dove anche l'operaio costretto a vivere in un buco di pochi metri quadri negli orrendi e grigi palazzoni sovietici, poteva respirare un po' di bellezza.
Langone divide le messe secondo varie categorie: quelle più belle, quelle da «eterni anni Settanta» e mediatiche, cioè vale a dire infestate da video al plasma che rischiano di trasformare i luoghi di culto in una succursale di uno studio televisivo; quelle «brutte ma buone», buone messe in brutte chiese, o «belle e cattive», vale a dire «cattive messe in belle chiese»; per arrivare alle messe dei movimenti, alle chiese «turistiche» e infine alle cattedrali. Il mosaico, da Nord a Sud della Penisola, è variegato. L'autore descrive liturgie di piccoli paesi e di grandi città: definisce ad esempio il duomo di Milano «chiesa-matrioska» difficilissima da valutare perché racchiude in sé l'involucro gotico e la discutibile intercapedine turistica, con annesso «Bookshop». C'è la «liturgia farinelliana», che trae il nome da don Farinella, il prete genovese che ha fatto scrivere alla Madonna una lettera in favore del voto a Veltroni e nelle sue «messe» ha abolito il segno della croce, ma ci sono anche tanti piccoli e grandi esempi di belle liturgie.

Ci sia consentito, infine, in cauda venenum (un po' di latino è d'obbligo, in tempi di motu proprio): le oltre duecento recensioni delle messe migliori e peggiori d'Italia, «alla ricerca della messa come Dio comanda», fanno emergere chiaramente l'impostazione del loro autore, che non tollera la comunione nella mano - peraltro autorizzata dalla Cei - e soffre per le «schitarrate» durante la liturgia. Ecco, ferma restando la necessità del richiamo a curare meglio le celebrazioni, non bisogna cadere nel rischio dell'aut aut, dimenticando la legge segreta del cristianesimo, quella inclusiva e mai escludente dell'et et. La messa non va mai ridotta a pura estetica, né la liturgia a questione di pizzi, ori, merletti, candele e inginocchiatoi. Il gregoriano è stupendo, il latino è sublime, l'incenso affascina. Ma senza un po' di cattolica ferialità, di canti popolari e di messe basse e claudicanti, di assemblee variegate e scomposte, l'atmosfera nelle nostre chiese finirebbe per essere soffocante. Anche se liturgicamente perfetta.